Dallo scorso febbraio ad oggi, il premier kosovaro Albin Kurti e il presidente serbo Aleksandar Vučić si sono riuniti in tre diverse occasioni ai tavoli negoziali. Al centro dei colloqui, mediati da Bruxelles, l’Accordo di normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado. Inizialmente, l’apertura dei leader al dialogo aveva lasciato intravvedere un’opportunità di avvicinamento tra i due paesi; tuttavia, le divergenze emerse negli ultimi mesi potrebbero ora vanificare ogni tentativo di distensione. A partire dallo scorso maggio, il nord del Kosovo è tornato ad essere teatro di tensioni in conseguenza dell’elezione di sindaci di etnia albanese in municipalità a maggioranza serba. Sin da subito gli scontri hanno assunto forma violenta al punto da richiedere l’intervento della Kosovo Force (Kfor), contingente Nato dispiegato in territorio kosovaro dal 1999. L’escalation più critica si è verificata pochi giorni fa, precisamente lo scorso 24 settembre, quando nel villaggio di Banjska – situato nella municipalità di Zvečan, già protagonista delle tensioni di maggio – si è consumato un nuovo scontro a fuoco tra la polizia kosovara e un gruppo di estremisti serbi. Se in occasione delle ostilità della scorsa primavera Stati Uniti e Unione europea avevano espressamente richiamato il governo di Pristina, accusato di aver spinto per l’insediamento di sindaci albanesi pur rischiando di alimentare nuove instabilità, ora l’ago delle responsabilità sembrerebbe puntare contro la Serbia. Nonostante il sostegno del governo di Belgrado al gruppo di rivoltosi non sia stato accertato, una totale estraneità della Serbia ai fatti di Banjska appare poco verosimile. L’attribuzione delle responsabilità, almeno per il momento, resta comunque un problema marginale; ciò che preoccupa di più è piuttosto il riemergere di una frattura che, sommandosi ad una lunga serie di tensioni e divergenze pregresse, rischia di invalidare il processo di normalizzazione facilitato dall’Ue.
La gravità di una nuova interruzione del dialogo serbo-kosovaro può essere meglio compresa se analizzata in funzione dell’instabilità che da oltre un anno scuote il fianco orientale dell’Europa. Il conflitto che vede contrapposte Mosca e Kiev, benché territorialmente circoscritto alla sola Ucraina, minaccia infatti di ripercuotersi anche nei Balcani occidentali, non pienamente integrati nell’apparato europeo e soggetti a continue interferenze da parte del Cremlino. In questo contesto, Kosovo e Serbia sono tra i più esposti ad un effetto spillover: la Russia, infatti, forte del legame con Belgrado e del diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu che le consente di ostacolare il riconoscimento internazionale di Pristina, ha il potenziale di esacerbare le tensioni tra i due paesi e di minarne l’adesione all’Ue. Ciò spiega gli sforzi congiunti dell’Europa dei 27 che, volendo scongiurare il rischio di un nuovo conflitto, negli ultimi mesi ha tentato in più occasioni di rilanciare il processo di normalizzazione serbo-kosovaro avviato con il Brussels Agreement del 2013. Ricorrere alla chiave di lettura del conflitto russo-ucraino consente anche di comprendere come l’impegno europeo, benché esplicitamente finalizzato a porre fine ai dissidi tra Pristina e Belgrado, sia in realtà mosso da un obiettivo politico più ampio: consolidare il ruolo dell’Unione nella regione balcanica e far retrocedere la Russia da una delle proprie tradizionali sfere di influenza, limitando così il margine di manovra del Cremlino. Non è un caso, a questo proposito, che il piano di normalizzazione sia stato appoggiato anche dai cinque Stati membri che non riconoscono il Kosovo – Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna –, manifestando un’unità di intenti che in materia balcanica non era mai stata riscontrata prima d’oggi.
In che cosa consiste, dunque, l’Accordo a cui Serbia, Kosovo e Ue hanno lavorato nell’ultimo anno e che ora potrebbe andare incontro ad una nuova impasse? L’obiettivo principale riguarda lo scioglimento dei due nodi che periodicamente mettono in contrasto i governi di Pristina e Belgrado: il riconoscimento della sovranità kosovara e la costituzione di un’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo (Asm).
La questione relativa allo status kosovaro affonda le proprie radici nel 2008, anno in cui Pristina ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza da Belgrado; da quel momento, le istituzioni serbe si sono rifiutate di accettare la sovranità del paese e, forti del già menzionato supporto di Mosca, ne hanno ostacolato ogni tentativo di accreditamento internazionale. Oggi, dunque, il processo di normalizzazione serbo-kosovaro dipende in primo luogo dal mutuo riconoscimento, aspetto a cui Bruxelles – in qualità di mediatrice – ha dedicato fin dal principio particolare attenzione. Proprio a questo proposito, tuttavia, emerge il primo elemento di criticità. Come anticipato, i paesi Ue presentano posizioni difformi circa l’indipendenza del Kosovo, dividendosi in una maggioranza che la riconosce e in una minoranza che la nega. Ciò impedisce a Bruxelles di affrontare la questione in modo esplicito. Ecco quindi che nell’Accordo «mutuo riconoscimento» viene sostituito da un più generico invito ad instaurare «relazioni normali […] basate sulla parità dei diritti», evitando una terminologia che metterebbe in contraddizione gli Stati europei ma che, d’altro canto, rafforzerebbe l’efficacia dell’Accordo stesso. Certo, se la Serbia accettasse le condizioni richiamate ai punti 4 e 8 – «abbandono di ogni tentativo di ostacolare l’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali» e «scambio di missioni permanenti presso i rispettivi governi» – la sovranità kosovara risulterebbe riconosciuta de facto. Ad oggi, tuttavia, non si ravvisa una disponibilità di Belgrado in tal senso e il nodo dell’indipendenza del Kosovo risulta ancora lungi dall’essere sciolto.
La seconda questione affrontata nell’Accordo, quella relativa all’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, è a propria volta una conseguenza dell’autoproclamata sovranità di Pristina. Nel 2008, con la nascita di due entità territoriali distinte, gli oltre 100.000 serbi che all’epoca vivevano in Kosovo sono diventati a tutti gli effetti una minoranza etnica in un paese straniero, inducendo Belgrado a chiedere l’istituzione dell’Asm per poterli amministrare autonomamente. Richiesta, tuttavia, mai accolta da Pristina, convinta che la creazione di tale entità amministrativa avrebbe aumentato l’influenza di Belgrado sul Kosovo ed esposto il paese alle tendenze separatiste della comunità serba. Ancora oggi, per tali ragioni, l’Asm non sembra destinata a vedere la luce e la rigidità di Pristina al riguardo sta gradualmente aumentando: si pensi al divieto di circolazione delle auto targate da Belgrado e al rifiuto di ospitare seggi temporanei in occasione delle ultime elezioni serbe, provvedimenti che nell’ultimo anno e mezzo hanno provocato forti dissidi tra i due governi. A tali problematiche, stando a quanto auspicato dall’Ue, dovrebbero rispondere gli articoli 1 e 7 dell’Accordo, dedicati rispettivamente al «riconoscimento reciproco dei documenti e simboli nazionali, targhe comprese» e all’introduzione di «garanzie per assicurare un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo». Proprio quest’ultima clausola mette però nuovamente in luce lo scarso margine di manovra europeo: l’istituzione dell’Asm, pur implicitamente auspicata, non viene mai menzionata, né viene meglio definito il sistema di garanzie a tutela dei serbi del Kosovo. Non stupisce, dunque, che lo scorso maggio Pristina si sia sentita libera di insediare sindaci albanesi nelle municipalità a etnia serba, soprassedendo all’articolo 7 dell’Accordo ed innescando una nuova spirale di tensioni.
C’è poi un ulteriore aspetto su cui l’escalation delle ultime settimane getta ombra: il processo di adesione di Serbia e Kosovo all’Ue. Ai punti 3 e 7 dell’Allegato di attuazione dell’Accordo, reso noto lo scorso marzo, è infatti esplicitato che «il mancato rispetto degli obblighi derivanti dall’Accordo […] potrà avere conseguenze negative dirette sui rispettivi processi di integrazione» e che da ciò dipenderanno anche i futuri aiuti finanziari emessi da Bruxelles a favore di Pristina e Belgrado. Tali vincoli potrebbero volgere soprattutto a sfavore di Pristina: mentre la Serbia ha avviato i negoziati per l’ingresso già nel 2014 e oggi risulta ufficialmente in preadesione, il Kosovo non soddisfa ancora i requisiti e detiene per il momento solo lo status di candidato potenziale. Nonostante la situazione delicata, è comunque poco plausibile che il recente riemergere delle tensioni blocchi drasticamente il percorso di integrazione: bisogna infatti sempre considerare che gli stravolgimenti provocati dal conflitto russo-ucraino hanno lasciato un segno non indifferente sull’Unione europea, ora più che mai decisa a rilanciare un processo di allargamento rimasto troppo a lungo in sospeso.
In definitiva, quanto accaduto negli ultimi giorni nel nord del Kosovo richiama l’attenzione su quanto vari e delicati siano gli equilibri geopolitici che ruotano intorno a Pristina e Belgrado. Ciò che appare evidente è quanto sia importante, anche se particolarmente difficile, evitare che il dialogo mediato nell’ultimo anno da Bruxelles vada incontro ad una nuova impasse. Insistere sulla ricerca di un equilibrio comune andrebbe infatti a beneficio di tutte le parti coinvolte. Il Kosovo, Stato convenzionalmente debole, vedrebbe finalmente riconosciuto il proprio status internazionale e rafforzato il proprio apparato politico interno; la Serbia, vicina a Mosca ma da tempo orientata verso l’integrazione europea, acquisirebbe maggiore credibilità nel sistema di alleanze occidentale; l’Ue, infine, consoliderebbe il proprio peso geopolitico e strategico in un’area storicamente legata alla Russia. Senza escludere, poi, che una normalizzazione delle relazioni serbo-kosovare potrebbe dare slancio a progetti regionali come l’Open Balkan Initiative. Obiettivi che, oltre a non essere affatto scontati, sembrano nuovamente alquanto difficili da raggiungere.
Carlotta Maiuri